Dodicesimo Capitolo del libro Golfo Mistico di Roberto Bonaventura

Elena era distesa sul suo letto.

La luce dell’assolato pomeriggio s’intrufolava con discrezione dalle persiane socchiuse. Il condizionatore, impostato sulla funzione deumidificatore, garantiva una frescura naturale.

Le lenzuola di raso, blu mirtillo, incorniciavano il suo corpo immobile. I lunghi capelli erano sparpagliati sul cuscino. Gli occhi meravigliosi erano fermi sullo schermo bianco del soffitto. Indossava una canottiera a spallina stretta con scollo a cuore, bianca, come le mutandine, che esaltava le morbide forme. Teneva le fini ed eleganti caviglie incrociate, le dita dei piedi, si muovevano leggermente come se stessero tentando di risvegliarsi da un lungo sonno. Il braccio destro adagiato lungo il corpo. La mano sinistra appoggiata sul ventre. Nell’altra mano teneva stretto il cellulare.

Tiziano non rispondeva.

Non voleva? O non poteva?

Si morse piano il labbro superiore alla ricerca di una risposta inafferrabile. Iniziava a credere che si sarebbe potuta innamorare terribilmente: per la prima volta e magari per l’ultima. Non voleva ammetterlo, ma era già parecchio inoltrata in quel labirinto.

Rielaborava continuamente le parole, le immagini e le scene come se fosse un regista, dimentico della sceneggiatura, in una sala montaggio.

Riavvolse la bobina della memoria recente e si ritrovò nuovamente a Monte san Bartolo, mentre parcheggiavano la macchina nel piccolo piazzale adiacente alla villa di Lucrezia Moreno. Si odiava per aver accettato l’invito a recarsi lì, proprio quella sera. Ma che cosa le era preso? Era combattuta dalla voglia di passare del tempo con lui solo e dal desiderio di mostrarsi in compagnia di una persona che le piaceva così tanto. Era un modo sontuoso, quanto stupidamente affrettato, per dire, a tutti quei vanitosi superficiali dei suoi amici, che lei non era come loro, che non lo sarebbe mai stata.

Un errore imperdonabile.

Non si dava pace. Premuto l’invisibile tasto del play, le immagini presero a susseguirsi.

«Ma voi abitate tutti quanti in casette popolari?» le domandò, Tiziano, mentre la guardava con lo sguardo divertito.

«Ma dai! Lucrezia è la figlia di un magnate dell’alta finanza. Non so quante case abbiano in giro per il mondo…», replicò, con la massima naturalezza.

«Almeno abbiamo lasciato la mia macchina parcheggiata fuori, non oso immaginare la faccia della tua amica e degli altri, se l’avessero vista», sorrideva, ma il volto era un po’ tirato.

«Ancora con la storia della tua macchina? Per favore… Ma ti sei visto? Chi potrebbe mai fermarsi a notare un dettaglio tanto insignificante, vedendo te?» gli occhi le brillavano. Era sincera e magnifica.

Varcarono l’opulento cancello in ferro battuto, fissato su solidi pilastri di pietra arenaria grigia. Lei, alla sua destra, lo teneva stretto sotto il braccio, ancorata al suo bicipite. Erano una coppia sbalorditiva.

Al termine del vialetto, che fendeva una vegetazione di lecci, rose e gelsomini, la facciata della villa ottocentesca si presentò in tutta la sua imponenza. Un sapiente movimento di archi e colonne impreziosiva la costruzione, per metà tinteggiata in verde dall’edera rampicante.

Davanti all’entrata principale, su un’aiuola a forma di cuore, un tappeto fiorito di piccoli garofani rossi e gialli diede loro un silenzioso e colorato benvenuto. Poco più a destra sulla ghiaia bianchissima erano parcheggiate due Audi di grossa cilindrata, una Jaguar XKR cabrio e una Porche Cayenne. Tiziano fece in modo di non rabbuiarsi e soprattutto di non commentare. Dovette prontamente estinguere un moto di nervosismo. Era intimamente consapevole che con i proventi dei suoi libri, se solo fossero stati pubblicati e promossi, avrebbe potuto possedere anche di meglio. Si concentrò sul complimento strepitoso che la ragazza dei suoi sogni gli aveva appena rivolto e riafferrato uno stralcio di sorriso, lo indossò.

Salirono la piccola scalinata di marmo rosa e, tenendosi per mano, entrarono nel vestibolo. Gli venne incontro, sorridente, una cameriera filippina. Aveva gli occhi grandi e scuri, i capelli nerissimi legati in una crocchia e una crestina di pizzo bianco.

«Signorina Elena, buongiorno. La signorina Lucrezia vi sta attendendo a bordo piscina», disse, facendo un leggero inchino con il capo.

«Salve, Dalisay, grazie. Le presento Tiziano, il mio ragazzo», poi si voltò verso di lui e lo investì con uno sguardo colmo di affetto. Lui ricambiò, immensamente. Dire che era felice di essere lì con lei, non avrebbe mai reso, in maniera decente, l’idea della straordinarietà del sogno che stava vivendo. Il resto non aveva alcuna importanza.

Seguendo la graziosa donna nella sua divisa grigia, attraversarono un arioso salone nel cui centro planava una scenografica scala di legno d’acero. Sembrava la hall di un grande hotel.

Un pianoforte nero a coda Steinway & Sons era posto nelle vicinanze di un’ampia vetrata da cui s’intravedevano alcune statue disseminate lungo una stradina che s’inoltrava nel verde. Giunsero all’esterno.

Una ragazza in bikini giallo, i capelli castani raccolti   in una coda, riemergeva, sinuosa, dai gradini a scomparsa di una grande piscina mosaicata. Lui notò che aveva troppe curve pericolose per permettersi di guardarla nuovamente in un posto diverso dal volto. Due ragazzi e due ragazze erano seduti su poltroncine di vimini, nei pressi del bordo vasca. Un terzo, in piedi, poco distante da loro, era impegnato in una telefonata. Su due tavolini apparecchiati con tovaglie bianche, c’erano calici e bottiglie e abbondanti stuzzichini per l’aperitivo.

«Finalmente!» esclamò, uscendo dall’acqua, la giovane prosperosa. Tutti si voltarono verso di loro. Ci furono tre interminabili secondi di silenzio nei quali tutti gli occhi furono per lui. Un uomo aitante, con i capelli molto corti e leggermente brizzolati sulle tempie, si alzò di scatto e, a lunghe falcate, andò incontro a Elena. Baciatala rumorosamente sulle guance, si girò verso Tiziano e con fare falsamente cordiale, gli dedicò un sorrisetto, Tornando a divorare con gli occhi la ragazza, esclamò: «Splendore delle Marche e del mondo intero… ma dove ti eri cacciata? Ti stiamo attendendo da un’ora», il volume della voce era sgradevolmente eccessivo.

«Stefano…  ti presento Tiziano, Tiziano Orlandi, il mio ragazzo», disse, Elena, con la voce colorata da note di gioia. Seguirono le altre presentazioni di rito in un’atmosfera che per Tiziano non aveva nulla di naturale. Si sentiva osservato, indagato, sia dalle ragazze sia dai ragazzi. La clamorosa curiosità che pesava su di lui era un macigno e non sembrava foriera della nascita di qualche nuova duratura amicizia. Con la sua fervida intelligenza e il suo talento di scrittore, annotava ogni dettaglio, radiografando cose invisibili a terzi, circa le caratteristiche di quelle persone. Le domande che si accalcavano nella testa degli amici della sua ragazza, non tardarono a venire fuori, rivelando le loro scarse qualità umane.

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Ci fu una mezz’ora di vari convenevoli piuttosto noiosi e superficiali. Elena dava l’impressione di volersi rapidamente affrancare, lo desiderava almeno quanto lui. La padrona di casa, Lucrezia, avvolta in un accappatoio di ciniglia giallo, continuava a vivisezionare Tiziano: dalle scarpe ai capelli.

«Di che cosa ti occupi?» gli domandò a un certo punto, sorseggiando da un calice un liquido arancione con immersa una piccola fetta di arancio. Lo guardava in un modo strano, come se lo volesse dominare e conquistare al contempo.

«Sono uno scrittore, diciamo…», rispose, scegliendo la strada dell’umiltà e dell’umorismo.

«Diciamo? Lo sei o non lo sei? È la tua professione? Che cosa scrivi in particolare?» Chiese a raffica, con l’aria di chi ha individuato un terreno friabile in cui affondare la vanga della curiosità.

«Scrivo romanzi, ma purtroppo non mi è ancora stato pubblicato niente», rispose restando saldamente ancorato alla verità. Senza remore e vergogna. «Tuttavia non ho intenzione di arrendermi», soggiunse. In realtà si era già quasi arreso, ma in quella circostanza, specie per la presenza di Elena, non era il caso di essere così brutalmente sinceri.

La sua ragazza lo guardò con tenerezza, come a volergli proiettare nel cuore un caldo raggio d’amore.

«Ma sei uno scrittore per modo di dire, allora…», intervenne, Manolo. Aveva i capelli quasi rasati, ciglia ad ala di gabbiano e una barbetta curatissima che sembrava disegnata. Proseguì: «Guarda, mio caro, che tanta gente scrive per diletto come te. Se tu ti definisci “scrittore”, in quale modo dovrei definirmi io che sono uno scrittore vero?» lo provocò. La sua voce, un po’ stridula e quasi femminea, rese la sua affermazione ironica estremamente fastidiosa.

«Ah, tu sei uno scrittore vero? Mi piacerebbe leggere qualcosa di tuo, magari poi ti dico che ne penso», replicò, Tiziano, con pacatezza.

«Mio caro, e tu chi saresti per giudicare il mio libro?».

«Il tuo libro? Arguisco che ne hai, quindi, almeno uno all’attivo, giusto?» lo incalzò Tiziano, determinato a chiudere la pratica a proprio favore. «Sarà una mia irrilevante opinione, ma credo che possa compiutamente definirsi scrittore chi scrive e scrive bene», concluse lapidario Tiziano.

«Tutti cantano, ma non tutti sono cantanti; o mi sbaglio?» s’intromise, retoricamente, Manuela. Vestita di bianco, capelli rossi, lentiggini sul volto e sul corpo. Il suo fisico magro da modella era pericolosamente tendente all’anoressia. Fino a quel momento era restata in assoluto silenzio, rimirandosi le unghie delle mani smaltate di rosso corallo. Il suo intervento fu completamente ignorato.

Il libro di Manolo, pessimo quanto scopiazzato, fu pubblicato da una grande casa editrice, grazie all’intervento, anche economico di un certo Marcus, il suo ex compagno. Quando questi trovò, poi, l’amante con cui rimpiazzarlo a letto, si chiuse il capitolo promozionale de: “La terra vacua dell’intolleranza” senza che nessuno, nelle librerie, come altrove, se ne potesse accorgere. A Manolo restarono solo svariati scatoloni grigi pieni di libri e delusioni.

«Senti, lasciamo stare… non ti mettere a fare l’espertone con me, ho frequentato il mondo dell’editoria ad altissimi livelli. Il tuo parere di scrittore mai nato è, credimi, quanto di più superfluo possa esserci al mondo», affermò polemico Manolo. Aveva l’anima ancora ustionata dal ricordo doloroso per la vicenda sentimentale con Marcus.

Tiziano era ormai in piena accelerazione, la fase dell’umiltà stava per essere, doverosamente, sorpassata e lasciata alle spalle in favore della modalità “guerriero spartano”.

«Senti tesoro bello, non mi fraintendere, non muoio dal desiderio di leggerti: non te lo sognare neppure. E, visto che non sai apprezzare nemmeno la buona educazione, consentimi di aggiungere che riuscirò a sopravvivere anche senza il tuo esimio parere su uno dei miei romanzi inediti. Senza contare che, temo, non trattino argomenti e materie di tua competenza, non essendo esattamente manuali su come depilarsi le sopracciglia o prendere la tintarella in perizoma», lo incenerì.

Manolo stentò a riprendersi da quella raffica di schiaffi verbali, ben assestati. Maggiormente lo colpì una luce spaventosa nello sguardo di quel ragazzo, insidioso e affascinante. Deglutì rumorosamente. Stizzito, con la voce ancora più aspra, si rivolse a Elena: «Io mi meraviglio di te… ma con chi cavolo te la fai! Ma chi è sto bifolco arrogante?» domandò, in maniera plateale.

Elena, presa in contropiede dalla inaspettata quanto fulminea diatriba, spalancò i suoi occhioni incredula. Era rimasta senza parole, conosceva Tiziano da poco, ma era assolutamente fiera di lui per il coraggio dimostrato e per la calma con la quale aveva gestito quell’isterico. Ricordava molto bene il suo pessimo libro. Ricevuto in dono, con tanto di enfatica dedica, un paio d’anni prima. Una tragica apologia del pensiero unico, condito di personaggi banali e storielle sentimentali oltre il limite della decenza; il tutto spacciato per opera letteraria innovativa. Per lei quella lettura fu come un’acerba penitenza quaresimale, un vero e proprio supplizio cartaceo. Il suo ragazzo, senza sospettarlo, stava vendicando lei e tutti i presenti. Nessuno, infatti, si poté sottrarre a quella antipatica lettura. Manolo, per oltre un anno, non parlò d’altro, sottoponendo gli sciagurati di turno a domande analitiche e dibattiti estenuanti sul proprio lavoro.

«Tranquillo, Tiziano, era solo una domanda innocente, la mia», s’inserì viscidamente Lucrezia. Il tono della voce tradiva il desiderio di gettare nuova benzina sul fuoco. Non le pareva vero, sempre così annoiata da una vita colma di comodità e persone scontate, di trovarsi in casa un personaggio così sorprendentemente interessante.

Elena, seduta a fianco di Tiziano, gli strinse forte la mano. Si sentiva molto in colpa per aver accettato l’invito a passare in villa, da quella sottospecie di amici con la testa vuota.

All’improvviso, prima che lei imbastisse una risposta adeguata alla provocazione di Manolo, Tiziano si alzò di scatto. I suoi muscoli sembravano dilatarsi sotto la camicia, gli occhi fiammeggiavano. Era ancora più irresistibilmente attraente in quel ruolo di gladiatore.

«Scusatemi tanto, ho una telefonata urgente da fare», li informò, come se nulla fosse accaduto. Posò una delicata carezza sulla guancia di Elena e si diresse verso il boschetto a diversi metri da loro.

«Manolo, non ti permettere mai più di rivolgerti al mio ragazzo e a me con questi toni e in questi termini. Sei inqualificabile. Dovresti solo vergognarti», lo aggredì Elena furibonda. Gli occhi, solitamente carichi di dolcezza, sembravano le bocche di due lanciafiamme. «Lucrezia, ecco qui la chiavetta USB. Appena Tiziano avrà terminato la telefonata, ce ne andremo subito», tagliò corto, mentre richiudeva la borsetta.

Si sollevò immediatamente un coro di proteste al quale mancava solo la voce di Manolo che, standosene voltato verso la piscina, interpretava la muta parte del grande letterato offeso. In realtà era soprattutto trafitto dai ricordi sanguinosi relativi al tradimento di Marcus, responsabile di aver mandato al macero il suo “capolavoro”, oltre che il suo cuore.

Tiziano, che in realtà non aveva nessuna telefonata da fare, si era allontanato per allentare la tensione e permettere a Elena di rispondere in tutta libertà a quel cretino di Manolo.

Stefano aveva studiato quell’inatteso avversario sperando di vederlo umiliato e ridotto ai minimi termini davanti agli occhi della donna che aveva sempre desiderato per sé. Elena era la sua passione erotica irrefrenabile. La corteggiava da anni. Quando poi lei lasciò, Dimitri si concesse l’illusione di poterla accalappiare in meno di un mese. Tuttavia lei lo aveva sempre respinto e ora, come se non bastasse, si presentava addirittura in compagnia di quel tizio. Un intollerabile affronto, anche considerando che quel Tiziano era proprio un bel ragazzo e a dispetto della sua carriera di scrittore mai cominciata, aveva dimostrato di avere un eloquio e un’intelligenza che raramente aveva avuto modo di apprezzare in uomini fisicamente tanto dotati.

«Tesoro, ma non dirai sul serio, spero. Scusa, ma se il tuo amico dice di essere uno scrittore e poi di fatto non ha pubblicato niente… faceva prima a dire che è un disoccupato. Manolo che colpa ne ha?» la interrogò Stefano, con fare meschino.

Elena si alzò repentinamente, lo guardò per alcuni atroci istanti riversando su lui un fiume di ribollente disprezzo che ebbe l’effetto di un vademecum di tutti i motivi per cui lei avrebbe preferito farsi suora di clausura senza vocazione piuttosto che essere anche solo sfiorata da un cialtrone ignobile come lui. Il messaggio arrivò a Stefano come un colpo di lupara in piena fronte, tanto che dovette abbassare lo sguardo. Bellissima e furente andò verso il suo uomo che aveva appena terminato di fingere un’animata conversazione telefonica.

«Amore, hai finito? Andiamo via di qui, per favore?». Tiziano la guardava incredulo mentre lei gli si avvicinava camminando sull’erba curata del prato inglese.

Come mi ha chiamato?

I capelli accarezzati da mille riflessi luminosi si alzavano leggeri sospinti dall’andatura decisa. Il volto deliziosamente altero. Lui aveva ascoltato tutto. Era lusingato per come quella creatura degna di un Re, l’aveva difeso, ma al contempo era interiormente ferito per essere stato la causa di tutta quella situazione imbarazzante. Era drammatico doverlo riconoscere, ma in definitiva avevano ragione loro: era un fallito.

Non fece a tempo a sprofondare verticalmente in quella inesorabile, cocente, riemersa verità, che Elena lo abbracciò, salvandolo. Si baciarono, come se fossero stati i primi al mondo a farlo e come se non avessero mai fatto nient’altro per tutta la durata della loro vita.

Andò in scena un’indimenticabile manifestazione di poetica armonia. Una lezione silenziosa e magistrale del potere che solo l’amore possiede e riverbera.

Nessuno più fiatò mentre, senza voltarsi, mano nella mano, se ne andarono lontano da lì.

 

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