Quarto Capitolo del libro Golfo Mistico di Roberto Bonaventura

La temperatura della mattina annunciava un’altra giornata di gran caldo, anche se, nei vicoli della Napoli antica, il sole faceva solo rare e fugaci visite.

Rosa si svegliò di soprassalto, madida di sudore, nel suo piccolo locale al pian terreno con accesso diretto sulla strada, che i napoletani chiamano “basso”, in vico Tre Regine. Aveva il presentimento che l’ennesima sventura stesse per prenderla di mira e centrarla, con l’abilità di un tiratore scelto.

Alzò gli occhi al soffitto affrescato da macchie marrone d’umidità. Respirando a fatica, come se avesse avuto le costole di cemento armato, si tirò su e si mise a sedere sul letto. I suoi pensieri corsero incontro a suo figlio Giacinto, detto “Bambulella”. Mille nuove paure si addensarono, come ombre vive, intorno a lei.

Il suo basso era pulito e dignitoso, nella sua povertà. Il letto matrimoniale, con la testata in legno impiallacciato, occupava, insieme a un tavolo da soggiorno, coperto da una tovaglia cerata rossa, poco meno della metà di tutto lo spazio calpestabile della stanza principale. Il resto dell’arredo era costituito da un cassettone in legno color noce, riccamente tarmato e un po’ gonfio, con su appoggiato un vecchio televisore di venti pollici. Nell’altra piccola stanza c’erano due letti a castello e un altro lettuccio. L’umidità era la vera padrona di casa. Rosa ci aveva ormai fatto l’abitudine e altrettanto avrebbe dovuto fare con l’idea che suo figlio era un poco di buono senza speranza. Tuttavia la sua fede le impediva di arrendersi a quell’evidenza, rammentandole che nessuno è veramente senza speranza.

Bambulella era, ancor prima che un soprannome, un inquietante avviso di sciagura. Notoriamente appartenne a Giacomo Frattini: un ragazzo che morì decapitato e smembrato, per una vendetta di camorra, negli anni settanta. A Giacinto, questo nome, gli fu affibbiato da un vecchio camorrista di Forcella, che restò colpito, molti anni prima, dalla bellezza quasi femminile di quel bambino furbo e pericoloso, che non aveva paura di niente e di nessuno. “Bambulella”, che si potrebbe tradurre con “bambola graziosa”, aveva ventidue anni, gli occhi di un azzurro glaciale, i capelli biondi cenere che gli toccavano quasi le spalle, la carnagione chiara sulla quale spiccava una bocca ben disegnata. Non sembrava un napoletano ma ne incarnava uno stereotipo terribile e temibile. Tutti sapevano che con lui era meglio non avere problemi. Era un lupo solitario, non apparteneva a nessun clan, non faceva parte de “’O sistema” (così, oggi, in gergo si chiama la camorra). Non concepiva l’idea di prendere ordini da qualcuno, sembrava ignorare concetti come: autorità, proprietà privata e sacralità della vita umana. Li aveva smarriti da anni. Raccoglieva tutte le provocazioni che gli venivano offerte, con la soddisfazione con cui una bimba coglie le margherite in un prato per farne una ghirlanda.

Complice anche il suo fisico atletico, poteva avere e, di fatto, ebbe tutte le donne su cui posava gli occhi. Libere o sposate, non faceva differenza. Le usava, alla stregua dei bossoli dei proiettili della sua Beretta che una volta sparati restavano a terra. Era fortissimo, veloce, violento e imprevedibile. Il suo nome iniziò a essere sinonimo di guai, da quando, anni prima, sterminò un gruppo di quattro balordi che per ordine di Raffaele detto “’O Niro”, padrino della Duchesca, furono incaricati di ammazzarlo. Questo boss molto potente e crudele era chiamato “Il nero” per via della pelle scura: era, infatti, figlio di un afroamericano. Nell’immediato dopoguerra non era raro che le ragazze napoletane si ritrovassero nella pancia il frutto di un amore o di un’avventura “americana”. Il padre di O Niro dopo aver lasciato, a quanto si dice, in più grembi partenopei, il segno del suo passaggio, fece ritorno negli Stati Uniti e si dileguò.

Bambulella, avendo osato portarsi a letto sia la figlia sia la donna del temuto boss, scrisse di pugno la propria sentenza di morte.

Le due donne, una di diciassette anni e l’altra di ventinove, si detestavano fino all’odio. Combattevano da sempre la loro personale battaglia sul terreno impervio della contesa del padre, da una parte, e dell’amante dall’atra. O Niro detestava i loro continui litigi perché minavano la serenità domestica. Per il tipo di vita che faceva, pretendeva di trovare un ambiente pacifico tra le lussuose mura del suo fortino, posto all’ultimo piano di un antico palazzo di via Duchesca.

Per quanto odiasse le loro continue discussioni, le amava entrambe. Cercava di farle andare d’accordo riempiendole di attenzioni e regali costosi che sortivano, invece, l’effetto contrario. Laura, la figlia, non sopportava che quella puttana avesse osato prendere il posto della propria madre, morta di cancro tre anni prima. Il saperla ogni notte a letto col padre, le procurava vertigini di furore. Rosaria, invece, non voleva dividere il suo uomo, potente e ricco, con quella carogna viziata di sua figlia. Erano entrambe notevolmente belle: Rosaria con i capelli lunghi neri e ondulati, slanciata e formosa. Il suo sguardo raccontava istantaneamente che non avrebbe avuto problemi a scrivere un’intera enciclopedia su come conquistare un uomo. Laura, mulatta: fisico morbido e femminile, capelli ricci. I suoi occhi grandi e cerulei, eredità della compianta madre, erano la gioia e il dolore di suo padre.

Finirono entrambe, senza troppe esitazioni, a fare sesso con Bambulella cui, normalmente, bastava puntare una donna per vedersela cadere ai piedi. Egli stesso non sapeva come interpretare questo dono, grazie al quale non conosceva la sensazione frustrante del rifiuto. La sua bellezza non era che una componente del fascino misterioso e irresistibile. Non sapeva cosa volesse dire corteggiare una femmina. Si poneva sempre con un atteggiamento rude, disinteressato. Questo mix produceva, nel gentil sesso, un incontrollabile istinto peccaminoso. Le donne volevano essere sue. Quell’ingrediente oscuro, quasi diabolico che da lui emanava come una fragranza era stato la rovina di tante. Libere, vergini, sposate, vedove… non faceva alcuna differenza, le donne che a lui interessavano diventavano sue.

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Non occorsero più di due settimane e l’oltraggiosa notizia arrivò, in qualche modo, alle orecchie di O Niro.

Il corpo di Rosaria non venne mai più ritrovato. Si racconta che la pistola sparò tre colpi dopo averla penetrata. Prima di questo epilogo, “Ninno” e “O Lione”, i due scagnozzi più spietati del boss, ebbero licenza di approfittare della traditrice.

Laura invece fu allontanata, per un lungo periodo, in Puglia, presso un collegio di religiose Carmelitane. Distante dagli occhi del padre, disgustato e deluso.

Il nome di Bambulella si trovò così al vertice della black list dei nemici personali del Boss della Duchesca. La sentenza fu terribile. Bambulella doveva essere ucciso lentamente, previa la mutilazione dello scroto e del pene, da effettuarsi rigorosamente a vivo. I quattro killer incaricati dell’efferata esecuzione, furono trovati, trucidati, una mattina, dagli operatori della nettezza urbana, a salita Coroglio, all’ingresso della grotta del Seiano.

La notizia fece subito il giro della città.

‘O Niro, che considerava, erroneamente, già archiviata la vendetta, rimase profondamente scosso, anche se la sua reazione fu opportunamente celata. Prima che potesse organizzare una nuova e impietosa spedizione, al suo ritorno a casa, la sera stessa, la Beretta di Bambulella gli regalò un terzo sanguinoso occhio, due centimetri sopra il naso.

Si diffuse così la terribile fama di Bambulella ‘o pazzo.

Rosa si alzò dal letto, implorando con gli occhi e a voce alta l’ausilio della Vergine di Pompei: «Maronna mia! Chistu figlio è    na croce! Fa’ ca nun me l’hanno acciso! Pienzace Tu!».

Il terrore di essere investita da una nuova disgrazia era diventato, per la povera donna, il carburante delle sue preghiere alla santa Madre di Dio, che in qualità di Mamma Celeste, poteva certamente capire i suoi tormenti.

La signora Guarino era povera in tutti i sensi.

Povera per la condizione economica: faceva lavori saltuari e mal pagati come donna delle pulizie. Povera per la situazione familiare: vedova del marito Antonio; il primogenito, Ciro, morto per overdose, il secondogenito Claudio, in carcere da sei anni in Germania con una pena di trenta per una rapina finita con un duplice omicidio. In questo desolante contesto, solo Maria Letizia, l’unica figlia femmina, si era salvata. Tuttavia, anche lei aveva provveduto a lacerarle il cuore. Trasferitasi a Milano, non telefonava mai e non tornava a casa, da anni. Per finire in bellezza, poi, c’era l’ultimo nato dei Guarino: “Bambulella” che aveva sempre, teoricamente, un piede in un loculo e un altro in galera.

A completare il quadro c’erano anche i guai di salute, aggravati dal grasso corporeo che, come il muschio proliferava all’ombra degli alberi, così si era insidiato sotto la sua pelle. Aveva compiuto recentemente cinquantacinque anni ma ne dimostrava almeno dieci di più. Chiunque avesse avuto un motivo valido per guardarla attentamente in viso, si sarebbe stupito nell’intravedere la bellezza dei suoi lineamenti e lo spettacolo di quei suoi occhi blu scuro.

Da giovane, Rosa era, infatti, tra le ragazze più belle e corteggiate dei Quartieri come a Napoli sinteticamente si chiamano i quartieri spagnoli. Purtroppo però, per le giovani attraenti come lei, il destino era spesso segnato in negativo. Finivano per diventare le donne dei potenti che, in quei dedali sovraffollati, erano i padroni e i signori incontrastati. Quasi tutte si ritrovavano, poi, vedove o a piangere la morte dei figli, per le solite ritorsioni tra clan.

Quando donna Concetta, la mamma di Rosa, si accorse che sua figlia, ormai quattordicenne, stava sviluppando in maniera prorompente, pregò una sua vecchia zia, di prenderla con sé. Zia Margherita, maestra elementare, la ospitò nel suo piccolo appartamento al Vomero, per farla studiare all’istituto salesiano del Sacro Cuore. Questo sacrificio della famiglia si rivelò la scelta giusta. Rosa inizialmente fu riluttante all’idea di lasciare la propria casa. Andarsene via dal rione, che era il suo mondo, non fu meno traumatico. Iniziava, inoltre, a sentirsi perfettamente a suo agio tra le attenzioni esplicite di quei balordi che giravano su moto costose e dei quali tutti avevano rispetto e timore.

Lontana dalla vita senza futuro che certi suoi ammiratori le avrebbero regalato, la ragazza si diplomò, ottenendo ottimi voti. Imparò a non abusare del dialetto e a mitigare garbatamente il suo accento. Tuttavia restò fiera di appartenere al popolo dei quartieri spagnoli. Persone dal cuore grande, che, nonostante le difficoltà, sapevano aiutarsi come una grande famiglia.

Napoli è una città con tante città dentro.

Nonostante la buona intuizione di donna Concetta, non fu possibile evitare l’inevitabile. Un giorno, inaspettatamente, zia Margherita morì a causa di un infarto. La persona che l’aveva praticamente adottata e che la considerava come una figlia, fu chiamata dal Padre Eterno. Per Rosa non ci furono alternative: ritornò a casa dai propri genitori. Il ritorno in famiglia della ragazza spalancò le porte della felicità. La mamma, casalinga, e il papà Carlo, bidello di scuola elementare, insieme con un fratello più piccolo, Luigi che era entrato anni prima in seminario, l’accolsero come se fosse nata per la seconda volta. Donna Concetta preparò per la cena i piatti preferiti dalla figlia: vermicielli con le vongole, frittura di pesce fresco empepata di cozze e per dessert una guantiera di prelibatezze della grande pasticceria partenopea. Rosa, guardando gli occhi lucidi dei suoi genitori, si rese conto del grande sacrificio di cui si erano fatti carico, mandandola a stare dalla buonanima di zia Margherita. Anche se teoricamente vivevano nella medesima città, il solo fatto di non poterla tenere sempre vicino, fu per loro un dolore tremendo. Rosa ancora sofferente per la morte della cara zia, imparò d’un tratto che l’amore è capacità di sacrificio per chi si ama. Comprese benissimo di non meritare un padre e una madre con un cuore così grande. Decise che avrebbe fatto qualsiasi sforzo per essere degna di loro.

«Sono felicissima di essere tornata con voi, qui, a casa mia. Mi siete mancati tantissimo, non andrò mai più via, vi voglio troppo bene!» disse tutto d’un fiato, con voce tremante. Piansero tutti e quattro di gioia. Quella serata fu una delle più dolci della loro vita. Erano nuovamente uniti.

Il ritorno nei Quartieri fu certamente bello, ma lasciare improvvisamente la sua vita, non fu indolore.

Fino al 1800, il Vomero era solo una verde altura pressoché disabitata. In seguito, la terribile speculazione edilizia del dopoguerra trasformò la lussureggiante e panoramica collina in un centro abitato moderno e congestionato, dove, sotto l’aspetto urbanistico, non c’erano molti punti di contatto con la Napoli antica. Se non fosse stato per le splendide vedute, che fin troppi palazzi si contendevano, non si sarebbe potuto immaginare di essere esattamente a Napoli.

Il repentino cambio di vita e di frequentazioni incisero sul morale della ragazza. Tuttavia l’affetto straripante e sincero della gente dei Quartieri, tipico dei veri napoletani, le impedirono di cadere in depressione. La nostalgia per sua zia, che ormai era diventata una seconda mamma, la relegava spesso in casa dove, raccolta tra i suoi ricordi e pensieri, leggeva con avidità libri di narrativa.

Fu anche per sottrarsi a una reclusione perenne, tra le mura domestiche, che la giovane si convinse ad accettare la corte di Antonio Guarino, il figlio del calzolaio.

Nonostante l’impegno vanamente profuso dal ragazzo per conquistare la bella Rosa, dopo alcuni mesi d’impassibile resistenza, lei si decise a porgergli una speranza. Più per disperazione che per convinzione.

Antonio era certamente un bel ragazzo con i capelli corti castano chiaro. Era piuttosto alto, per la media dei coetanei. Aveva uno sguardo sincero e un po’ furbetto, la battuta sempre pronta. Sul piano estetico era indubbiamente un degno cavaliere per la Rosa. Sotto lo aspetto dell’istruzione scolastica e la voglia di faticare: no. Pensava solo a godersi la vita, dissipando, talvolta, anche i soldi guadagnati con fatica da suo padre, Vincenzo ’o scarparo. La vita da prigioniero, che questo laborioso uomo conduceva nella sua piccola bottega, tra la puzza di colla e quella di scarpe vecchie, spaventava il figlio, invece che edificarlo e invogliarlo al lavoro. Vincenzo era certamente un uomo bravo e onesto, ma, agli occhi di suo figlio, era una specie di fallito. Per lui era inaccettabile che la dura fatica paterna fosse ricompensata da un cumulo di logore scarpe sfasciate che tentava quotidianamente di salvare. Vincenzo era un maestro nel risuolare, rabberciare e cucire; il tutto per garantire alle calzature dei suoi poveri clienti, un altro anno di vita, o nel migliore dei casi, un ulteriore passaggio tra fratelli. Per il suo svogliato e superficiale figlio questo sacrificio era semplicemente incomprensibile, anche visti gli esigui ricavi.

Antonio sapeva benissimo che Rosa era la più grande, e forse l’unica, opportunità di felicità che avrebbe mai avuto nella vita. Questo lo rese un fidanzato irreprensibile. Sempre pieno di premurose attenzioni.

Una calda sera di fine maggio condusse Rosa, che ormai aveva imparato a volergli bene, sulla spiaggetta di Posillipo di fianco a palazzo Donn’Anna. Camminarono un po’ a piedi nudi sul bagnasciuga tenendosi la mano. Non si dissero nulla, ogni parola sarebbe stata superflua e forse dannosa.  Si sdraiarono sulla sabbia, nei pressi di una barca blu tirata a riva dai pescatori. Rimasero a guardare il cielo pulsante di astri. Antonio avvertiva un’insolita sensazione di gioia, molto più che se fosse stato il padrone del mondo intero.

Rosa, che iniziava a sentire, anche nel corpo, l’attrazione per quel ragazzo forte e simpatico, si abbandonò completamente a lui quan-do, al colmo dell’emozione, osò toccarla. Le mani incerte di Antonio ebbero l’onore di accarezzare il suo seno bianco, caldo e abbondante e poi, di seguito, tutto il resto delle meraviglie che, fino a quel giorno, erano state solo oggetto dei suoi sogni più disperati. Fecero l’amore incuranti dello spicchio di luna che avrebbe potuto, illuminandoli, coinvolgere, nel loro splendido segreto, eventuali sconosciuti che si fossero affacciati da via Posillipo. L’esperienza sessuale provocò nel figlio del calzolaio una vampata d’amore passionale per la sua bellissima fidanzata. Rosa trovò in questa nuova gradevole esperienza un modo efficace per uscire definitivamente dai tormenti di quella vita che non sapeva mai come decifrare, e ancor meno affrontare. Ripeterono quell’esperienza fisica, liberatoria e appagante, tutti i giorni che poterono, trattenendosi a stento solo quando Rosa era indisposta. Al terzo mese, il ciclo non intralciò la loro bramosia. Restò incinta.

Antonio, codardo e irresponsabile, sarebbe volentieri fuggito in un’altra nazione, pur di non affrontare il padre di lei. Rosa, invece, iniziava a pensare al loro imminente, quanto inevitabile matrimonio, come un segno del Cielo. Volgeva la mente al tesoro che custodiva nel grembo, come a una missione riservatale da Dio stesso.

Le loro famiglie accolsero la notizia senza fare tragedie. Anzi, abituate com’erano, alle continue difficoltà della vita quotidiana, accolsero il fatto con moderata letizia e sano pragmatismo. Si riunirono più volte alla presenza dei ragazzi per trovare una sistemazione ai futuri sposi e al primo nipote in arrivo. Ricevettero un grosso provvidenziale aiuto dal parroco della chiesa di Sant’Anna di Palazzo: don Pasquale. Uomo di vera fede, dotato di un grande senso pratico. Virtù indispensabili per la cura delle anime, specie in una realtà come quella in cui Dio lo aveva mandato a santificarsi, santificando. Il saggio sacerdote li esortò con paternamente a pentirsi e a ben confessarsi, poi si fece promettere solennemente che si sarebbero dovuti impegnare per rimanere casti fino al giorno del loro matrimonio. I ragazzi acconsentirono, un po’ riluttanti, accettando di continuare a frequentarsi solo alla presenza dei genitori, oppure in chiesa per la santa Messa. “Fuggire le occasioni di pericolo” era l’unico mezzo per evitare tentazioni, altrimenti impossibili da vincere”, rammentò loro, più volte, il presbitero. Il notevole sforzo che compirono per onorare la promessa, fruttò loro l’uso perpetuo di un basso composto da due locali oltre un piccolo bagno, in vico Tre Regine, che una vecchia e pia signora lasciò in eredità alla parrocchia.

Il matrimonio fu celebrato da Padre Luigi, il fratello di Rosa, e concelebrato da don Pasquale. Fu una festa per tante persone dei quartieri spagnoli che li avevano visti crescere. Un camorrista di buon cuore, che volle restituire un favore a Rosa, la quale aveva dato ripetizioni di italiano gratuitamente a una sua nipote, offrì il pranzo nuziale e lasciò una busta con dei soldi per i giovani sposi. Nessuno si volle interrogare sulla provenienza dei denari necessari per pagare quel lauto pasto, anzi, questo aiuto, fu considerato un vero dono del Cielo.

Rosa crebbe i tre figli che nacquero dal loro matrimonio, come se fosse stata vedova, visto che il marito non riuscendo a combinare niente di buono nel lavoro, non riuscì nemmeno a trovare quel pizzico di entusiasmo per collaborare in famiglia. Vissero di stenti fino a quando una mattina fredda di dicembre, Antonio uscì per andare a lavorare al porto e lì morì, schiacciato sotto un container rosso che, per disgrazia, si staccò dalla gru. Con la sua tragica morte sparirono anche quei pochi soldi che riusciva a guadagnare. e la speranza, omai ridotta al lumicino, che un giorno qualcosa di positivo sarebbe potuto accadere.

All’alba della mattina successiva alla tragedia, Rosa, con le guance bagnate dalle lacrime, guardò i volti innocenti dei suoi bambini che dormivano ignari e sereni nel lettone insieme a lei. Con gli occhi imploranti cercò quelli della Madonna di Pompei nell’immagine appesa davanti al letto, dono di suo fratello frate. Ebbe la certezza dolorosa di non aver mai smesso, neanche per un istante, di amare suo marito. Quell’amore gigantesco non mai fu intaccato dall’inettitudine di Antonio, e mai sarebbe stato spazzato via dalla sua imprevista, quanto tragica, morte. Senza riuscire a smettere di singhiozzare, abbracciò il cuscino del suo sposo e vi risentì il profumo del mare di quella lontana notte a Posillipo, quando, per la prima volta, fecero l’amore.

Ancora non sapeva che Antonio le aveva lasciato un’altra creatura che, silenziosamente, le stava crescendo in grembo.

 

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