Quinto Capitolo del libro Golfo Mistico di Roberto Bonaventura

La ragazza aveva ventinove anni, capelli castano scuro che, lisci e luminosi, fluivano fino a metà schiena. I suoi grandi occhi, blu, ricordavano il colore del mare della Costiera Amalfitana. Elegante e snella nelle armoniose forme, era ammirata e corteggiata, senza pause, da tutti gli uomini liberi, separati o sposati.

Per tutti i suoi colleghi della Sky Line Music di Milano, casa discografica con sede a New York, la sua ritrosia e il suo sfacciato disinteresse per ogni proposta dal sapore, anche solo vagamente galante, era un enigma insoluto. Le ipotesi che venivano fatte sul suo conto erano le più disparate. La più ricorrente e accreditata la dipingeva come una lesbica, ma nessuna prova fu mai fornita a conferma di questa congettura.

Uno dopo l’altro, tutti quelli che avevano provato, anche con ostinazione, a sedurla si erano arresi senza alcun risultato. Belli, giovani, ricchi, potenti e le altre categorie di uomini, generalmente ambiti, erano ai suoi occhi prive d’interesse.

Tutti i colleghi la stimavano, sia per le sue capacità, sia per l’abnegazione con la quale si dedicava alla sua professione: tanto da averne fatto l’unica ragione di vita. La S.L.M. – acronimo della Sky Line Music – era una nuova realtà discografica, fondata con coraggio e passione da un gruppo di “visionari” italiani, nel momento storico in cui l’intera industria discografica era, a viste umane, in procinto di tracollare. La pirateria, che dilagava senza controllo, e il progressivo scadimento dei progetti musicali, avevano sentenziato la fine di un’epoca e forse, addirittura, la fine della musica inedita.

Era atterrata a Milano da poche ore, con un volo proveniente da New York. Il direttore artistico, Andrea Falco, l’aveva inviata per concordare le strategie promozionali per il lancio negli Stati uniti, di una nuova ambiziosa produzione targata S.L.M.

Si trattava del disco di una venticinquenne di nome Tanya, una cantante talentuosa originaria di Modena. Il suo disco di debutto aveva venduto quasi trecentomila copie nella sola Italia. Il successo di Tanya fu poi confermato e di gran lunga superato in America Latina, dove la versione cantata in spagnolo aveva venduto fino a quel momento oltre un milione di Album ed era ancora nella top ten in Perù, Messico, Brasile e Argentina.

L’euforia per l’imminente debutto americano di quest’artista, non aveva potere sugli effetti negativi del Jet lag.

Quando scese dal taxi, che da Malpensa la portò fino al suo appartamento affittato in via Orefici, nei pressi di piazza del Duomo, provò una strana e inaspettata sensazione. Le parve che una ventata di gelida malinconia le stesse attraversando il corpo.

Maria si scosse subito. Non permetteva mai alla sua mente di addentrarsi in terreni oscuri, dove il rischio di rimanere impantanata, era altissimo. Aprì il grande portone e, nonostante il bagaglio, preferì le scale. L’appartamentino era arredato con sobrietà. Dischi, cd e dvd erano accatastati in ogni dove.

Si tolse i sandali Guess, belli quanto inidonei per un viaggio così lungo, e con i piedi nudi un po’ arrossati si diresse nel bagno, dove si spogliò. Aprì l’acqua, la miscelò e lasciò che la vasca si riempisse. Pregustava quel lungo e tiepido ristoro. Completamente nuda si guardò nello specchio. Notevole fu il sollievo nel vedersi ancora magra, dopo cinque giorni d’indicibili disordini alimentari. Colazioni, pranzi e cene a base d’insalubre cibo americano, non erano il regime alimentare opportuno per preservare la sua invidiabile linea. S’immerse lentamente nell’acqua, non prima di aver inserito nel lettore uno dei tantissimi “cd demo” che le venivano inviati tutti i giorni. Già dai primi secondi lo stereo alitò musica dolce e sensuale che, insieme al vapore, riempì tutta la stanza. Niente di più gradito per favorire il suo totale abbandono a una sensazione di pacata gioia.

Chiuse gli occhi promettendo a sé stessa di non addormentarsi. Con la testa appoggiata al bordo della vasca, lasciò fluttuare i suoi pensieri in libertà. Fu come spalancare la porta di una voliera. Centinaia di pennuti, dai colori e dalle dimensioni più dissimili, spiccarono il volo contemporaneamente. Aeroporti, aerei, taxi, ristoranti, sale riunioni, grattacieli, musica, e ancora camere d’albergo, briefing e bar, tutto questo s’inseguiva e roteava nella sua mente come in una centrifuga. Quando a un tratto apparve lui. Trasalì. Spalancò gli occhi come se quel ragazzo fosse in piedi davanti a lei nuda, nella vasca. Ovviamente non c’era nessuno.

Si rilassò nuovamente con le membra immerse nell’acqua fumante.

Nel caos ordinato del J.F. Kennedy, Maria Letizia aveva notato un ragazzo che immaginò potesse essere un modello o un attore. Lei, che era solita ignorare tutti gli uomini e le loro attenzioni, non poté fare a meno di accorgersi di lui. Rimase pietrificata. Quel tizio, a dir poco bellissimo, dotato di un fisico da rivista e di due occhi verdi magnetici, era letteralmente incredibile. Ripresasi a stento dallo stupore cercò anche di raggiungerlo. Si sentiva come una scheggia di metallo attratta da una potente calamita. Facendo lo slalom tra i passeggeri gli passò vicino più volte, ma, cosa inaudita, ebbe la netta sensazione di essere agli occhi stupendi di lui completamente invisibile. Leti, come la chiamavano a Milano, snobbava sistematicamente tutti i maschi. Li considerava squallidi e prevedibili con i loro corteggiamenti puerili, volti all’unico scopo di toglierle le mutandine per poi magari ricordarsi, soddisfatta la voglia, che avevano moglie, figli e vari impedimenti. In verità lei non aveva molte esperienze personali a riguardo. Tuttavia, le bastavano quelle fatte, con dolore, da tutte le altre donne che con lei si erano confidate. Maria Letizia sognava, senza osare ammetterlo con sé stessa, un uomo. L’uomo della sua vita doveva essere capace di ascoltarla, capirla e amarla per quello che lei realmente era. Ma, visto che i sogni e le favole, se trapiantate nella realtà, diventano odiose illusioni, per evitare delusioni aveva scelto di erigere un muro invalicabile attorno al cuore. Stare da sola, con il suo amato lavoro, le sembrava un’opzione più opportuna e prudente.

Questo progetto di vita vacillò senza dare alcun preavviso quando, sull’aereo del ritorno, quel ragazzo che indossava una camicia bianca aderente e un paio di jeans griffati, riapparve. Le passò affianco, lasciando una delicata scia di profumo che la inebriò. Chiuse gli occhi frugando nella sua memoria olfattiva. Quella fragranza ebbe il potere di immergerla negli anni della sua infanzia: il mare, i giardini di aranci, i panni stesi al sole ad asciugare… riemerse da quell’istantaneo viaggio nel tempo. Maria sentì accendere dentro di sé luci che proruppero nei luoghi del suo corpo e della sua anima dove da sempre regnava l’oscurità. Per la prima volta non si sentì preda, bensì cacciatore.

Controllò, con un riflesso incondizionato, lo stato dello smalto nude sulle unghie delle sue dita affusolate e quello dei piedi. Sapeva, per esserselo sentito ripetere diverse centinaia di volte, da tanti, troppi uomini, che le sue appendici erano molto belle e sensuali. Lei s’immedesimò nel ragazzo con gli occhi verdi e provò a giudicare i suoi piedini, ben incorniciati nei sandali di pelle nera. Si sentì quasi irresistibile. La cosa insolita in quel vortice d’inedite stranezze, che la stava scombussolando, è che il ragazzo in questione non l’aveva ancora degnata di un solo sguardo. Lo perse di vista a causa di un’inopportuna telefonata di lavoro. Il cuore le sbranava il petto. Quella sensazione frustrante la obbligò a rientrare in sé e a riprendere il controllo della situazione, nonostante il battito non intendesse decelerare.

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Salita a bordo del Boeing 747-400 dell’Alitalia si rilassò sul suo sedile in Business class, ripetendo nella mente: “Non permettere mai più di farti distrarre dagli uomini! Ricordati come sono fatti, a che pensano e che vogliono! Vuoi essere infelice come le tue colleghe? Vuoi finire in analisi per il resto dei tuoi giorni? Maria, devi pensare solo al lavoro!”.

Giusto il tempo di sentir sfumare nella sua testa l’eco dell’ultima parola, che una voce profonda e calda proveniente dalla sua destra, la fece sussultare.

«Mi scusi se la disturbo, ma dovrei passare, il posto vicino al suo è il mio». Il cuore le batteva nelle orecchie come un tamburo percosso con violenza, in un rituale africano. Il giovane “dei suoi sogni” le stava donando un sorriso disarmante, mostrandole l’incantevole fila dei suoi denti brillanti. Quell’adone fascinoso e stupendamente profumato stava chiedendole “scusa” e “per favore” per poi sedersi accanto a lei, e per tutta la durata di quel lungo viaggio!

Maria ricambiò il sorriso, temendo di avere una paresi dagli zigomi al mento; deglutì rumorosamente e, mentre si alzava per farlo passare, sentì avvampare le sue guance.

Rimase per alcuni minuti paralizzata, sperando che quella “visione” seduta al suo fianco non sentisse l’imbarazzante assolo di percussioni tribali che rimbalzava nel suo petto, facendo impercettibilmente muovere il suo seno. Lui si sedette. L’aurea invisibile di quel suo profumo strepitoso violò nuovamente il forziere della sua memoria. Porte e finestre a lungo murate furono riattraversate dalla luce solare. Un velo di amore e dolore l’avvolse. Senza osare voltarsi, Maria Letizia cercò di raccogliere preziose informazioni sul suo vicino, angolando dolorosamente lo sguardo verso di lui.

Notò le mani grandi, forti e venose. “Casualmente” registrò la mancanza della fede nuziale. Rilevò, però, la presenza di un rosario da dito, in argento. Stava cercando di riprendere fiato ed elaborare gli elementi in suo possesso, quando il giovane si sporse verso di lei e, guardandola dritta negli occhi, le porse la bella mano e in italiano le disse:

«Permetta che mi presenti, signorina, mi chiamo Edward Green, molto piacere. Abito qui a New York e ne approfitto per augurarle buon viaggio».

Maria gli strinse la mano mentre le si stringeva il cuore. Ricambiando lo sguardo e il sorriso rispose con un tono che voleva essere distaccato per contraddire tutti i sentimenti fin lì sperimentati:

«Piacere mio, mi chiamo Maria Letizia, sono di Milano, buon viaggio anche a lei».

Dette queste parole si appoggiò allo schienale, allacciò la cintura e subito ogni agitazione si attenuò. Il solo fatto che Edward si fosse presentato, aveva parzialmente narcotizzato la sua tensione. Maria, prevenuta com’era nei confronti di tutto il genere umano di sesso maschile, aveva voluto interpretare il gesto del ragazzo, come il solito déjà-vu cui era tristemente abituata. Non immaginava nemmeno che Edward, pur avendo perfettamente rilevato i cospicui elementi dell’avvenenza della sua vicina, si era presentato per educazione. L’avrebbe fatto, con altrettanta cortesia, con chiunque. Preso come era dall’emozione per quel viaggio, che sognava da quando era piccolo, tutto il resto del mondo sembrava un dettaglio trascurabile.

Maria si addormentò per quasi due ore a mollo nella vasca, procurandosi un torcicollo, un mezzo raffreddore e la trasformazione della sua pelle vellutata, in una spugna.

Il ragazzo dell’aereo, l’indecifrabile connubio tra un sogno idilliaco e un incubo, era quindi ricomparso nei suoi pensieri. Nessun uomo le aveva mai fatto quell’effetto. Quel profumo poi era un vero mistero. Ma quale fragranza, se non una magica, avrebbe mai potuto farle rivivere quel vortice d’ineffabili sensazioni?

Mentre si asciugava i lunghi capelli, pensò alla sua vita strana e si sentì in colpa per aver tradito l’amore di sua madre e per aver rinnegato la sua gente e la sua città. Vergognandosi di essere napoletana. Si sentiva sempre morire quando qualcuno le rivolgeva la domanda fatidica: “Di dove sei? Guarino non è un cognome lombardo!”. Purtroppo nessuno può scegliersi i genitori e può decidere la città o la nazione dove nascere. Lei questo lo sapeva, come sapeva che stava sbagliando. Si sentiva come chi fugge in nave da un problema per poi esserne raggiunto, in aereo.

Si preparò per la notte, con la speranza che l’abbraccio di Morfeo l’avrebbe liberata da tutti quei focolai di ricordi, lontani e vicini.

 

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